Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge reca una riforma del processo del lavoro diretta non solo a favorire la celerità dei giudizi e la certezza alla soluzione delle controversie ma, prima ancora, a incidere sulle ragioni dell'imponente contenzioso e della conflittualità in materia di rapporti di lavoro.
      In un quadro regolatorio moderno dei rapporti di lavoro la prevenzione e la composizione delle controversie individuali di lavoro devono certamente ispirarsi a criteri di equità e di efficienza, ciò che senza dubbio non risponde alla situazione attuale. Così come è vero che la crisi della giustizia del lavoro è legata ai tempi con cui vengono celebrati i processi, tali da risolversi in un diniego della medesima. Tuttavia, come bene rilevato da una recente ricerca della Commissione europea, la vera anomalia italiana è determinata dal numero esorbitante di cause che ogni anno investono i rapporti di lavoro, a dimostrazione della persistenza nel nostro Paese di un diritto del lavoro ancora ispirato a logiche formalistiche e repressivo-sanzionatorie che incentivano a dismisura la litigiosità (individuale e collettiva) e il conflitto tra le parti in causa. Come chiaramente evidenziato nel Rapporto 2006 della Commissione europea per l'efficacia della giustizia, istituita dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, il nostro Paese rappresenta il fanalino di coda nella classifica della durata dei processi civili. E ciò non si giustifica con la scusante, spesso argomentata, dello scarso investimento nelle risorse della giustizia: la spesa ad essa destinata nel nostro Paese, come dimostra il citato Rapporto, è infatti sostanzialmente allineata alla media europea.
      L'elevato contenzioso in materia di lavoro non è frutto dunque (o comunque

 

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non in modo preponderante) di regole procedurali poco efficienti. Il processo del lavoro è anzi ispirato alle regole di celerità e di oralità, in raffronto al procedimento civile in generale, procedimento che è spesso usato come termine di paragone proprio per tali note caratteristiche (tanto che, ad esempio, la recente riforma della procedura riguardante le cause per il risarcimento dei danni da circolazione stradale è stata improntata proprio alla procedura delineata dagli articoli del codice di rito regolanti il processo del lavoro; e la stessa riforma del procedimento di cognizione è stata indirizzata verso una riduzione delle udienze, come è già da tempo proprio del rito concentrato e tendenzialmente orale del processo lavoristico). Sono piuttosto le regole di diritto sostanziale e la cultura giuridica che le pervade tali da incentivare il conflitto tra le parti del rapporto di lavoro.
      I nuovi modi di organizzare il lavoro e di produrre, unitamente ad una estesa tutela del prestatore di lavoro che non giustifica più una visione aprioristicamente conflittuale e antagonista dei rapporti di lavoro, richiedono oggi regole ispirate alla certezza del diritto, alla libertà di impresa e alla tutela del prestatore di lavoro contro prassi o comportamenti fraudolenti, senza che il giudice o il mediatore giuridico siano chiamati a interferire con valutazioni di merito nelle logiche aziendali ispirate a un uso corretto dei poteri datoriali e, più in generale, nella libera dialettica intersindacale.
      Proprio su tale presupposto, la più recente legislazione ha fatto spesso rinvio a norme contenenti «clausole generali», che cioè legittimano il ricorso a particolari tipologie di lavoro o a decisioni delle parti non in presenza di specifici causali tipizzate, ma in presenza di requisiti riscontrabili ed effettivi, ma flessibili. E queste norme sono state affiancate da percorsi e da sedi di sostegno della volontà delle parti negoziali, come le sedi di certificazione dei contratti di lavoro, ispirate alla regola dello «stare ai patti», che è poi il vero argine contro la deriva della conflittualità permanente.
      Si pensi, ad esempio, alla riforma del contratto a termine di cui al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, che ha previsto la possibilità del ricorso a tale rapporto non più in specifiche e rigide ipotesi, bensì con riferimento alle esigenze tecniche, produttive, organizzative o sostitutive del datore di lavoro. Gli stessi presupposti, già previsti dall'articolo 2103 del codice civile, come sostituito dall'articolo 13 del cosiddetto «statuto dei lavoratori», ovvero la legge n. 300 del 1970, sono posti anche alla base delle scelte datoriali di trasferimento del lavoratore. Analoga formulazione è contenuta nell'articolo 20, comma 4, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, con riferimento alla ammissibilità di ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo determinato. Lo stesso decreto legislativo prevede in materia di lavoro a progetto, all'articolo 69, che il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, e in conformità ai princìpi generali dell'ordinamento, all'accertamento dell'esistenza del progetto, programma di lavoro o fase di esso e non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano al committente.
      Essendo questo l'indirizzo già seguito dal legislatore, spesso anche sulla base di avvisi comuni delle parti sociali come nel caso del lavoro a termine, è tuttavia necessario che, nel rispetto del principio costituzionale della libertà di impresa, il controllo sul riscontro dei presupposti che la legge pone con le clausole generali sia vincolato alla verifica (ex ante in sede di certificazione dei contratti di lavoro o ex post in sede giudiziale) dell'esistenza concreta di tali condizioni, senza tuttavia che possa essere sindacato il merito o l'opportunità della scelta datoriale, compito questo che appartiene semmai, sempre in funzione della tutela di princìpi di rilevanza costituzionale, alla contrattazione collettiva e all'autotutela collettiva. È evidente, infatti, che ove si legittimi il giudicante a valutazioni nel merito o di opportunità tecnico-organizzativa, la norma diviene non solo alquanto incerta, perché
 

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vincolata ad interpretazioni soggettive e comunque eccessivamente ampie e contrastanti, ma anche del tutto irrazionale, perché richiama il giudice a un compito che non gli appartiene, quello, cioè, di fare l'imprenditore, là dove il giudice ha invece un compito altrettanto importante e delicato che attiene alla verifica della legittimità dei poteri datoriali e alla repressione di prassi o di comportamenti fraudolenti.
      Nell'area delle clausole generali, quindi, le valutazioni dei giudici dovrebbero più avvicinarsi, nella loro struttura logica, ai controlli di legittimità sui poteri datoriali piuttosto che a valutazioni sul merito di specifiche scelte aziendali, dal che deriverebbero, anche, una maggiore uniformità dei giudicati e un omaggio più realistico, se non alla certezza del diritto, almeno alla prevedibilità delle decisioni.
      Coerentemente con tali premesse, il presente progetto di legge propone innanzitutto una norma in materia di interpretazione delle clausole generali contenute nelle disposizioni di legge o dei contratti collettivi nazionali di lavoro quali presupposto per l'instaurazione di determinati rapporti di lavoro, ovvero per l'esercizio da parte del datore di lavoro del diritto di trasferire il lavoratore o nel caso di cessazione del rapporto di lavoro. Tale norma si riconduce anche al più recente indirizzo, seguito dalla giurisprudenza maggioritaria, secondo il quale il giudicante, al fine di valutare il rispetto della clausola generale (ad esempio: le ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo che consentono la stipula del contratto a termine e del contratto di somministrazione a tempo determinato, nonché il trasferimento del lavoratore; la giusta causa, il giustificato motivo eccetera), debba verificare, sulla base delle prove fornite dalle parti, la sussistenza concreta ed effettiva del presupposto, senza però poter sindacare il merito o l'opportunità della scelta. Ciò, oltre che essere coerente con il principio stabilito dall'articolo 41 della Costituzione, svincolerebbe il giudizio dalle valutazioni personali del giudicante in merito all'opportunità o meno di uno specifico provvedimento datoriale, valutazioni che rendono aleatorio l'esito del procedimento e per questa stessa ragione alimentano il conflitto.
      Ancora elevato è poi il contenzioso in materia di qualificazione del rapporto di lavoro. Il progetto di legge propone, su tale aspetto, di promuovere e incentivare l'istituto della certificazione dei contratti di lavoro, introdotto dalla «legge Biagi» (legge n. 30 del 2003), proprio allo scopo di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro, garantendo assistenza alle parti nel momento formativo della volontà e maggiore certezza alle qualificazioni convenzionali, purché avvenute nell'ambito di enti bilaterali costituiti su iniziativa delle associazioni dei datori e prestatori di lavoro dei lavoratori comparativamente rappresentative, ovvero ad opera della direzione provinciale del lavoro, ovvero avanti le sedi universitarie, ovvero ancora, da ultimo, avanti i consigli provinciali degli ordini dei consulenti del lavoro.
      Si prevede che, a seguito dell'avvenuta certificazione del contratto di lavoro secondo la volontà delle parti, qualora i terzi, ivi compresa dunque la pubblica amministrazione, ricorrano avanti l'autorità giudiziaria chiedendo una diversa configurazione del rapporto, il giudicante, in caso di soccombenza della parte ricorrente, non possa derogare al principio della soccombenza di cui all'articolo 91, primo comma, del codice di procedura civile. L'amministrazione soccombente potrà agire, sussistendone i requisiti, nei confronti del funzionario responsabile ai fini del risarcimento del danno.
      Il progetto di legge propone poi una riforma dell'istituto dell'arbitrato nelle materie giuslavoristiche, anche al fine di armonizzare il procedimento per la risoluzione alternativa del contenzioso alle recenti innovazioni apportate agli articoli 806 e seguenti del codice di procedura civile. Già nelle scorse legislature sono stati presentati diversi progetti di legge volti a improntare il processo del lavoro ai criteri di certezza della soluzione delle controversie, di equità e di efficienza.
 

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      L'esigenza di un procedimento improntato ai criteri di celerità, di certezza e di equità, oltre che dal legislatore, è sentita soprattutto dalle parti sociali: si può in tale senso interpretare la proposta, promossa in diverse sedi, di sperimentare interventi di collegi arbitrali che siano in grado di dirimere la controversia in tempi sufficientemente rapidi.
      Alcune recenti intese tra le parti sociali hanno certamente rafforzato la soluzione arbitrale in alternativa a quella giudiziale, pur nei limiti e nel rispetto dei princìpi costituzionali che vietano l'obbligatorietà di tale mezzo di soluzione delle controversie. In coerenza con tali iniziative, e riprendendo alcune proposte già formulate nella scorsa legislatura, il presente progetto di legge intende promuovere e incentivare ipotesi alternative di risoluzione delle controversie di lavoro mediante procedure conciliative e arbitrali. Si intende in tale modo consolidare, anche nel nostro Paese, il sistema delle cosiddette «alternative dispute resolution» (ADR) che, sulla base del confronto comparatistico, specie in ambito comunitario, costituisce una valida e diffusa esperienza nella giustizia civile: in proposito è necessario anche guardare alle esperienze straniere più consolidate (dai tribunali industriali britannici ai probiviri francesi) per trarne motivo di riflessione e di approfondimento.
      La presente proposta di legge si inserisce e si armonizza nel quadro sia delle recenti riforme del lavoro sia delle modifiche apportate al codice di procedura civile nella materia dell'arbitrato. Si ritiene, come già accennato in precedenza, di dover promuovere e sostenere l'istituto della certificazione dei rapporti di lavoro, estendendo altresì il ruolo delle commissioni introdotte dalla «legge Biagi». Si è del parere che il ruolo delle commissioni di certificazione possa essere spinto oltre quello attualmente attribuito dalla «legge Biagi»; l'assistenza delle parti nel momento formativo e nello svolgimento del rapporto o, in ultima analisi, nel momento del recesso del rapporto di lavoro, può essere incentivata prevedendo non soltanto che le commissioni possano certificare le rinunce e le transazioni, ma anche che ad esse possano essere devolute procedure di conciliazione o di risoluzione consensuale e arbitrale delle controversie, senz'altro più celeri, meno onerose e più aderenti all'equità sostanziale e agli interessi delle parti, rispetto alla giustizia ordinaria.
      D'altro canto, il presente progetto di legge, nell'affrontare la questione dei metodi alternativi di risoluzione delle controversie, non può non tenere conto anche della recente riforma del codice di procedura civile che ha, come noto, ridisegnato anche le procedure arbitrali, definendo limiti e specificità dell'arbitrato rituale e di quello libero. Per quanto qui rileva, il nuovo articolo 806 del codice di procedura civile, nel prevedere che le parti possano far decidere da arbitri le controversie tra loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge, dispone tuttora che le controversie di lavoro possano essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro. La ragione per cui il legislatore ha visto sempre con sospetto l'arbitrato nelle controversie di lavoro viene individuata comunemente nel fatto che in esse si debbano applicare norme inderogabili, norme cioè che i privati non possono escludere con un accordo privato, norme a cui il legislatore ha voluto dare una particolare forza a causa della usuale disparità di partenza delle posizioni sociali delle parti coinvolte. Si ritiene che ciò possa essere ovviato, oggi, tramite l'assistenza della volontà delle parti in sede di certificazione del contratto di lavoro ad opera di commissioni terze, imparziali e autorevoli, istituite nell'ambito degli enti bilaterali, delle direzioni provinciali del lavoro, delle università pubbliche e private e dei consigli provinciali dei consulenti del lavoro.
      In primo luogo, esse potrebbero utilmente illustrare ai contraenti l'effetto dei compromessi da esse stipulati, verificando l'effettiva volontà delle parti di preferire, in caso di contrasto, il ricorso a vie alternative alla risoluzione che possano comportare anche, eventualmente, il ricorso
 

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a regole di equità. Inoltre, esse potrebbero poi essere la sede stessa della risoluzione di ogni eventuale controversia nello svolgimento del rapporto di lavoro, senz'altro in grado di proporre e di trovare soluzioni conciliative maggiormente aderenti agli interessi in contesa, giudicando anche, su accordo delle parti, secondo equità. In tal modo le commissioni potrebbero potenzialmente accompagnare le parti durante tutto l'arco del rapporto di lavoro, quale organo imparziale di assistenza della volontà e di risoluzione concordata dei conflitti.
      Alla luce di tali considerazioni, il progetto di legge propone un'estensione dell'applicazione dell'articolo 806 del codice di procedura civile, nel senso di ritenere validi i compromessi in materia di lavoro non solo ove previsto dalla contrattazione collettiva, ma altresì ove l'accordo dei contraenti sia stato certificato dalle commissioni di certificazione di cui all'articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. D'altro canto, se le commissioni già oggi sono competenti nel certificare le rinunce e le transazioni di cui all'articolo 2113 del codice civile, a conferma della volontà abdicativa o transattiva delle parti, non si vede quali ostacoli vi siano a prevedere che esse siano competenti anche a certificare la volontà delle parti stesse di rimettere una controversia al giudizio arbitrale, terzo e imparziale.
      Oltre a prevedere, in coerenza con quanto sopra affermato, l'estensione della competenza delle commissioni di certificazione (con modifiche dunque all'articolo 82 del decreto legislativo n. 276 del 2003), si introduce la possibilità di istituire presso tali sedi apposite camere arbitrali, le quali, per la loro professionalità e imparzialità, costituirebbero organi di particolare eccellenza per la definizione delle liti mediante la determinazione contrattuale delle controversie. Esse, agendo nel rispetto di regolamenti dalle stesse predisposti, potranno essere incaricate dalle parti che, nel conferire mandato, dovranno indicare il termine per l'emanazione del lodo e le norme che la commissione dovrà applicare al merito della controversia, ivi compresa, eventualmente, la decisione secondo equità, nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento. Al lodo è assegnata efficacia di legge tra le parti, essendo esso frutto della volontà contrattuale delle stesse, e si dispone, in merito alla tenuta dell'accordo, l'applicazione dell'ultimo comma del citato articolo 2113 del codice civile. Il lodo è impugnabile, in unico grado, soltanto per i vizi che possano avere vulnerato la manifestazione di volontà negoziale, delle parti o degli arbitri. Al lodo è inoltre riconosciuta efficacia di titolo esecutivo ai sensi dell'articolo 474 del codice di procedura civile, anche nonostante l'eventuale impugnazione.
      Ulteriore attribuzione delle commissioni di certificazione è la possibilità di esperire in tale sede, oltre che in quelle tradizionali delle direzioni provinciali del lavoro e delle sedi sindacali, il tentativo di conciliazione obbligatorio prodromico della vertenza giudiziaria.
      L'articolo 5 del presente progetto di legge propone una sostanziale modifica del tentativo di conciliazione previsto dall'articolo 410 del codice di procedura civile. Sul punto, concordando in parte con quanto già sostenuto in altri progetti di legge in materia, si osserva che rispetto alle controversie di lavoro il meccanismo del tentativo obbligatorio di conciliazione non ha mai registrato quella efficacia auspicabile fin dalla riforma introdotta dal legislatore nel 1973. Anziché alleggerire il carico di lavoro dei magistrati addetti alla trattazione delle controversie di lavoro e, al contempo, offrire strumenti efficaci e veloci di risoluzione delle controversie, il meccanismo della conciliazione obbligatoria di cui al citato articolo 410 del codice di procedura civile si è tradotto in una inutile fase prodromica del contenzioso, con conseguente aggravio di tempi. Emblematici, a tale riguardo, sono i dati forniti dall'allora Ministero del lavoro e delle politiche sociali - Direzione generale della tutela delle condizioni di lavoro - divisione IV, nel rapporto sull'attività conciliativa svolta dalle direzioni provinciali del lavoro nel corso dell'anno 2004. In
 

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base ad essi, limitando l'indagine al settore privato, su 319.815 controversie instaurate nel corso dell'anno - che vanno ad aggiungersi a un carico di 259.161 controversie già in corso ad inizio anno - le vertenze individuali conciliate sono solo 77.487, quelle non conciliate 51.268, mentre quelle che non vengono nemmeno trattate ammontano a 260.708.
      Il progetto di legge propone in primo luogo di rendere il tentativo di conciliazione da obbligatorio a facoltativo, prevedendo - nel contempo - incentivi per la scelta, libera, dell'ADR.
      Il progetto di legge delinea inoltre una modifica del procedimento di conciliazione, traendo spunto, per certi versi, dalla riforma introdotta, con riferimento al pubblico impiego, con i decreti legislativi 31 marzo 1998, n. 80, e 29 ottobre 1998, n. 387. L'esperienza sin qui maturata nel settore pubblico induce a pervenire a un complessivo giudizio di favore verso lo strumento conciliativo. Può infatti affermarsi che: un numero percentualmente irrisorio di domande si è riversato dalla sede precontenziosa alla sede giudiziale; raramente l'ente pubblico diserta la seduta così consentendo un utile approfondimento dei termini della controversia; l'eventuale esperimento negativo della conciliazione va di norma riconnesso alla peculiarità della questione sostanziale via via controversa e alla complessità delle problematiche organizzative e gestionali sottese alle questioni controverse.
      Tali dati confortanti, unitamente ad una oggettiva riflessione sull'insuccesso del modello vigente per il lavoro privato - per la scarsa impegnatività dello strumento, per l'assoluta carenza di incentivi positivi e negativi per le parti in lite e per il ceto tecnico-forense - hanno indotto a introdurre nel progetto di legge un meccanismo che miri ad anticipare l'esposizione delle ragioni a fondamento della domanda e della resistenza. Si ritiene, infatti, che sulla scorta delle ragioni già espresse dalle parti sia maggiormente ipotizzabile la possibilità di pervenire ad una mediazione e si è altresì del parere che, in tale caso, l'organo di conciliazione possa utilmente indicare alle parti vie per la bonaria definizione della lite.
      D'altro canto, un incoraggiamento a trovare una via conciliativa - che, secondo le previsioni del presente progetto di legge, non sarà una fase obbligatoria, ma sarà scelta deliberatamente dalle parti - può essere rappresentato dalle seguenti previsioni:

          a) il giudice dovrà tenere conto, al momento della condanna alle spese processuali e alla sua liquidazione, dell'atteggiamento assunto dalle parti in sede di tentativo di conciliazione;

          b) sugli importi monetari riconosciuti in sede di conciliazione a favore della lavoratrice o del lavoratore è riconosciuto il beneficio dell'abbattimento, in misura pari al 50 per cento, dell'aliquota applicabile per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale, nonché della ritenuta ai fini dell'imposta sul reddito.

      Gli articoli 6 e 7 propongono di attribuire alle commissioni di conciliazione adite dalle parti un ruolo maggiormente attivo nella proposizione di vie alternative alla controversia. Esse potranno infatti, in caso di mancata conciliazione, proporre una proposta per la bonaria definizione della controversia; se la proposta non è accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti, ciò di cui il giudice dovrà poi tenere conto al momento della condanna alle spese. Ma non solo: alle commissioni, le parti, durante la conciliazione o in caso di esito negativo, potranno conferire mandato per la risoluzione arbitrale della controversia, indicando il termine per l'emanazione del lodo e le norme che la commissione dovrà applicare al merito, ivi compresa la decisione secondo equità, nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento.
      L'articolo 8 propone un'ulteriore alternativa al ricorso alla giustizia ordinaria, riconoscendo in tale ambito il ruolo già da tempo assunto dalle sedi previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni

 

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sindacali maggiormente rappresentative, quale luogo tradizionale e privilegiato di assistenza delle parti sociali. Permarrà quindi anche avanti tali sedi la possibilità di esperire il tentativo di conciliazione, oltre alla possibilità, già riconosciuta dalla legge, di promuovere in sede sindacale l'arbitrato di cui agli articoli 806 e seguenti del codice di procedura civile.
      Lo stesso articolo 8 prospetta un'ulteriore possibilità di risoluzione alternativa della controversia, devoluta a collegi composti da arbitri scelti dalle parti e presieduti da professori universitari di materie giuridiche o da avvocati cassazionisti, nella forma dell'arbitrato irrituale, ma con la procedura ivi descritta. Tale opzione si pone come alternativa ai collegi precostituiti presso le sedi delle commissioni di certificazione, alle commissioni istituite presso le direzioni provinciali del lavoro e a quelle individuate dai contratti collettivi.
      L'ultimo capo, infine, propone norme in tema di decadenza, nel quando e nel quomodo, volte a rendere certi i tempi di impugnazione dei licenziamenti (o del recesso nel caso di collaborazioni coordinate e continuative) e dei trasferimenti dei lavoratori.
 

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